EROS E TÂNATOS /
Um exercício sobre a destruição e a criação, o desejo e a morte, a partir da Orgia de Pasolini.
NUNO M CARDOSO
ORGIA / Pier Paolo Pasolini
PROLOGO
Uomo
Sono morto da poco. Il mio corpo
penzola a una corda, stranamente vestito.
Sono dunque appena risuonate qui le mie ultime parole, ossia: «C'è stato finalmente uno che ha fatto buon uso
[della morte».
Si, è questo che ho detto, prima di ciondolare impiccato, acconciato in un modo veramente abominevole.
Gettare uno sguardo indietro — come un flash-back —sugli ultimi fatti, significativi, insieme, e tipici,
della mia vita?
E l'unica cosa ora che mi interessa fare:
ma come uno scrittore di memoriali e di aforismi,
a causa probabilmente della troppa saggezza dovuta
[alla morte.
Ecco, dunque: quest'uomo che vi parla appeso alla corda, con l'osso del collo spezzato, e già freddo,
è stato quello che si dice un uomo come tutti gli altri. Non è stato né un poeta, né un pazzo,
né un miserabile, né un drogato.
Ed è stato, con tutti gli altri, dalla parte del potere (del potere che si ha, o cui solo si partecipa:
non ha importanza). Appartenere alla parte del potere, poi, non significa affatto essere uomini di parte!
Anzi, chi accetta di essere un tranquillo, anonimo,
stimato detentore anche di una piccolaa parte di potere, vuole, con istinto animale, che la sua esistenza e l'altrui sia grigia, senza scelte e senza passioni.
Nell'orbita del potere c'è dunque la libertà
(che è la libertà più vera: la stessa degli animali!) di chi non ha urti con la propria esistenza.
Sì, io sono stato veramente libero e indipendente perché ho accettato senza alcuna riserva
l'esistenza delb potere, mi ci sono adattato,
con tutto il conformismo necessario, e, da uomo normale, ho cercato di accaparrarmene una fettac. Non grandi cose: sono stato soltanto un medio borghese.
Per completare dunque il quadro, devo aggiungere che non sono stato affatto conformista per fare,
del potere, un buon uso: no, no! Sono stato proprio di quelli, che, nella loro libertà, non hanno conosciuto né amore, né carità, né altre difficoltà della coscienza.
(Ma la pace lascia sanguinanti tracce come la guerra. Un'altra mostruosità
inscena i suoi spettacoli
al posto delle stragi.
E quanta pace in questa pianura tra le Alpi e il mare!)
Perché dunque ho potuto vivere, in pace, in un periodo di pace del mondo?
Una domanda assurda, che mi faccio, dopo quello che ho detto finora!
Ecco, io sono stato in vita un uomo Diverso: questa è la ragione per cui mi sono chiesto
come ho potuto vivere in pace, dalla parte dell'ordine.
È semplice: nascondendo a me stesso e agli altri la mia Diversità.
Essa non è mai stata esaminata, capita, accettata, discussa, manipolata. E rimasta vergine
com'è venuta al mondo, con me (o la mia infanzia). E quindi ha soltanto agito.
Si può agire prima di decidere? o senza decidere? Sì.
Ho esaminato, capito, accettato, discusso, manipolato la mia Diversità solo pochi minuti prima di morire: per il tempo, cioè, necessario, a togliermi, esemplarmente, la vita.
Ripeto dunque che se la mia vita
fosse stata uno spettacolo,
non sarei stato io a trovarmi
davanti al dramma, dovuto, per tradizione, al dilemma. Il flash-back delle ultime vicende della mia tragedia non possono essereb dramma o dilemma, ripeto,
che per la coscienza di un eventuale spettatore.
Ed ecco ora quali mi appaiono, da morto, i termini di questo dilemma (che mai spettatore
vorrebbe accettare, e se ne difenderebbe
disapprovando e fischiando, o telefonando, potrei giurarlo, addirittura alla Questura).
Ha diritto la Diversità a restare sempre uguale a se stessa? A non essere altro, in tal caso, che verifica di scandalo? Non deve, piuttosto, divenire altro scandalo?
Cos'è insomma la Diversità —
quando essa stessa non divenga diversa da sé —
se non un puro termine di negazione della norma?
E quindi parte della norma essa stessa?
E, quel che importa, che cosa deve fare chi è Diverso? Negro, Ebreo, mostro, cosa sei tenuto a fare? Ricostruire in te la realtà,
rendendola nuovamente reale?
Progredire anche tu, disobbedendo, insieme alle leggi anche alle leggi della Pazzia? [della norma,
Oppure...
devi invece accettarla — accettarla così come l'hai trovata?
Non hai altro da fare, Diverso, che perderti,
per così ritrovarti?
Devi accettare l'odio razziale
quasi questa accettazione fosse la ragione per cui sei al Se, privato di simpatia e di diritti umani, [mondo.
potrai così, fare santo te stesso e il mondo?
Mah, io non sono riuscito a rispondere a queste domande se non confusamente qualche istante, ripeto, prima di
[impiccarmi.
Ma se ciò che la mia morte rende significativo della mia esistenza — lo dico ancora una volta —
fosse una rappresentazione, credo che agli spettatori, miei nemici, che vogliono difendersi da me, direi: «Vi prego, siate come quei soldati,
i più giovani di quei soldati,
che sono entrati per primi
oltre i reticolati di un lager...
E' li i loro occhi... Ah, vi prego,
siate giovani come loro!» Ecco tutto.
E, ora, divertitevi.
C'è stato un concertino di angeli contro le pareti del mio cranio.
Io lo seguivo, con attenzione e rapimento:
non lo sapevo che si stesse tanto bene
caduti per terra come fantocci sul proprio vomito. Erano strumenti festosi e lontani
come l'ultima nuvola colorata dopo la distruzione del mondo...
Sono svenuto, e ho vomitato: quanta pace tra il vomito e le lacrime!
Dov'è andata? Totale solitudine.
Ecco, intorno a me... i segni della nuova realtà. Una casa piena di un silenzio innaturale;
un'assurda corda; pochi stracci;
qualche traccia, accusatrice, di vomito.
Che cosa mi rivelano tutti questi segni?
Mi rivelano che questa realtà non mi appartiene.
Essa appartiene ormai soltanto agli altri (vicini di casa, colleghi... e quattro poliziotti servi di Dio).
Molte paia d'occhi, suppongo, vedranno questi segni. Li intenderanno; e così, dopo un lungo possesso, verrò espropriato della mia realtà,
che tornerà ai suoi legittimi proprietari nella grigia memoria del mondo.
(Comincia a spogliarsi.)
Era scritto, da qualche parte, era sempre stato scritto:
e io non avevo mai voluto leggere.
Da una larva bianca
nella sua indecente innocenza è spuntato un ragazzo impube,
coi suoi capelli castani e già vecchi, severo servitorello del mondo,
che stette in famiglia e andò a scuola, pronto a tutto, esperto di ogni accettazione,
dedito alla pratica di imparare
e a farsi degno del comune futuro.
Io sono rimasto questo ragazzo impube uscito dalla larva. Ma, poi, la prima barba!
Le prime gocce di sperma! Aaaaaaah!
In poche settimane sono ritornato,
indietro, a essere
la silenziosa larva col suo basso sorriso
che pensa solo a succhiare la vita.
Questo è quello che mi è capitato:
ma io, ripeto, ho sempre creduto (o deciso)
di essere quel ragazzo impube nelle buone grazie del mondo Io, per quanto concerne la mia coscienza,
l'ho dunque accettato, il mondo!
Io, ho chinato la testa!
Ma la larva bambina — e l'uomo che poi ne è stato servo —
volevano altrimenti.
La mia volontà di normalità
è finita col non contare:
questo è ciò ch'era scritto e non ho voluto leggere.
Ora, il dolore terribile che provo morendo
è solo per la sola cosa che amo:
la carne tanto masticata e mai ingoiata di mia madre. Eppure, eppure non è questo dolore ciò che più importa.
(Si è spogliato, intanto, fino a denudarsi.)
Ho subito il processo di essere
qualcosa di DIVERSO. Questo mi è capitato.
Per quale disegno del mondo?
Perché gli altri, forse, si riconoscessero giusti?
E, così, potessero seguire, rassicurati, il procedere della vita?
E adesso, qui, morendo,
io non faccio altro che servire questa mia funzione?
Ma l'uomo a cui, porca miseria, è toccato il destino di essere DIVERSO,
deve starsene tutta la vita fermo,
segnato, schedato, dentro la sua diversità?
È solo degli altri (i simpatici, commoventi normali) la prerogativa di andare avanti, cioè a dire
evolversi, e fare la storia?
Mentre per me, DIVERSO, e tutti
i miei disgraziati compagni di sventura
(Negri, Ebrei), niente. Niente Storia.
Un destino d'immobilità preservata dall'odio. Dall'odio, dico, dei fratelli,
che, mediante evoluzioni e rivoluzioni,
morali e religioni, vanno avanti, loro, passo passo. Eh, no!
Io, ardentemente obbediente a questa regola,
alla fine della mia pubertà — come mi son già detto, nel presente, spiritoso monologo —
fui un bravo adulto, che si sottometteva con la buona fede dello scolaro
a tutte le regole del gioco (del potere): non solo: ma accettava addirittura,
con diligenza, la condanna contro la SUA DIVERSITÀ! Incredibile!
E ora perché finalmente, oh bella, mi ribello?
(Comincia a raccogliere gli indumenti delta ragazza, e a
indossarli: per prime, le calze.)
La marca di queste povere calze
di piccola borghese di periferia
dice con grande chiarezza due cose:
primo: la loro caducità,
secondo: la loro appartenenza alla sfera del potere.
In una bottega invasa da un rosa tremendo —quello che cade da un viale mai visto della città in preda a un tramonto fantastico — e dolce, famigliare solo per chi abita da quelle parti —era appena spiovuto... e tra tutto quel rosa nasceva una luna, piena d'una logicità fatale...
(Si è infilato le calze, e ora prende il reggicalze.)
Primo: la caducità;
secondo: un posticino nel mondo del potere. Due belle scuse per essere diversi in pace. Cara morte, ah, ah, come mi eri utile
per poter fingere
che il tempo non era nulla; che non passava. E che quindi era giusto starmene fermo
intento solo alle mie stupende, divine porcherie! Un reggicalze da poche lire.
Un amore, un volgare, compassionevole amore.
(Un amore di chi non sa niente, ma - poiché anche
[una ragazza
puttana o serva, sa ogni cosa, come ogni creatura -che immensità in quel non sapere niente!)
(C'è certo un'analogia tra gli innocenti e í DIVERSI: ma che abisso tra la servilità degli innocenti
e la servilità dei DIVERSI!
I primi, nessuno mai li accuserà di non andare avanti - nella storia, nella storia... - mentre i secondi...)
Reggicalze di una stagione,
per bacco, mi hai fatto giocare con te come un gatto, che non sa niente, baffuta macchina innocente...
Ti ho leccato e graffiato con tutta l'infinita
esaltazione... del matto
sistemato nella vita magnificamente.
Ero infatti terrorizzato dal ricatto della religione.
Ma ripeto, questo terrore mi era molto comodo, molto, perché mi abituava ad avere terrore di tutto,
e così ho abbassato la testa, mi son chiuso nel mio guscio ove, gran Dio!, ho poi fatto tutto quello che ho voluto.
(Si è stretti i reggicalze, e prende le mutandine.)
Ehi, mutandine di mia madre!
Primo: la caducità - e quindi la rassegnazione.
Secondo: l'onnipresenza del potere - e quindi l'ipocrisia. Mutandine cieche, sacchetto vergognoso.
Ma sì, ma sì, torneremo polvere: ciò ci protegge, da una parte, nell'essere follemente porci,
dall'altra nell'obbedire a chi vorrebbe
che mai si parlasse di voi; e che voi
foste fonte di silenzio.
(Si è infilato le mutandine, e prende la sottoveste.)
Idem poi dicasi per questa sottoveste.
Legata a motivi di canzonette, alla televisione, e affini. Eh, già! Ci sono dei misteri così. Chi ha detto
che anche una vita piccolo-borghese non sia misteriosa? Al contrario, è misteriosa anch'essa: mettiamo come la vita di un antico Greco.
Essa è impenetrabile: perché la sua bruttezza
e la sua volgarità (di cui, oh bella, ora sono qui cosciente) non può impedirle di essere reale. Al male non c'è confine. lo ho accettato questa sottoveste volgaruccia;
ho accettato le sue grazie
alla portata di tutti, la sua innocenza
voluta dalle complicazioni della ricchezza;
la sua innocenza: in cui la morte
introduce il principio della rassegnazione.
(Si è infilato la sottoveste, e prende la sottana.)
Non sei tu la sottana di lana leggera
che si indossa quando sta per finire l'estate? Anche tu, anche tu,
altro non dici che su te è passato il tempo, quello che distrugge, sul nascere, le speranze.
Sì, questo è importante, e lo sottolineo: la morte che concede l'orgia,
rende per sua natura sciocco lo sperare. (Si è infilato la sottana.)
Non è dai monti della luna che venite,
segni della mia nuova realtà.
Dico nuova: e non senza ragione.
Così nuova da far decadere ogni già sperimentata idea di novità. Infatti:
quando eravate i segni della mia realtà vecchia, due erano le alternative: primo, con la scusa...
della caducità (indi della rassegnazione)
asservirsi all'autorità e fare quella magnifica vita di porci.
Secondo, farla subito finita e darsi una magnifica morte (come è già accaduto nel corso dí questa tragedia). Ma... ora... si apre una terza alternativa...
un'alternativa... rivoluzionaria!
Sono stato vostro schiavo, oggetti della mia vita:
di conseguenza, voi siete stati i segni della mia obbedienza. Ma ora, ora non sono più vostro schiavo! Ah, ah,
ho del tutto stravolto la vostra normale funzione;
e domattina, così, voi sarete i segni della mia nuova realtà. Quanto parlate, quanto urlerete, (impazziti) oggetti banali, parole del silenzio e della rassegnazione!
(Estrae dalla borsetta il rossetto, la cipria, e comincia a truc-
carsi.)
© Susana Chicó.
Lo ripeto: in nome della morte
che voi mi avete predicato per tutta la vita, umili cose, ho rinnegato la coscienza
della mia diversità. Che, così, non ha avuto storia.
Essa è sempre rimasta allo stesso punto, come voi. Ma ora ecco, lo ripeto,
io vi faccio di colpo parlare un altro linguaggio.
Ah, in quante occasioni, in quante ore della mia adolescenza, della mia gioventù, a casa, a scuola,
nelle strade del centro piene di facce note come maschere, o in quei viali di periferia... dove luccica ancora il tremendo rosa
di quelle pozzanghere...
QUANTE VOLTE IO AVREI POTUTO RIBELLARMI!
E invece, una volta per sempre — lo ripeto, lo ripeto —avevo pronunciato un atroce giuramento di lealtà.
Ora mi appresto a rinnegarlo.
Il mio linguaggio diventerà muto per eccellenza, oltre che per l'eternità... Eppure
chi domattina verrà, e alzerà gli occhi per decifrarlo capirà quale terribile forza, mai pensata finora, avrebbe avuto il mio desiderio di essere libero,
se avessi vinto il mio istinto
attraverso cui la morte
aveva dichiarato inutile ogni speranza.
Il gruppetto di gente che il sole porterà qui
delegati dall'immenso mondo della storia
(i vicini di casa, in silenzio, i poliziotti
col loro triste sudore, gli infermieri
venuti dalla campagna: come li vedo!)
si troveranno davanti a un fenomeno espressivo indubbiamente nuovo, così nuovo da dare un grande
[scandalo
e da smerdare, praticamente, ogni loro amore.
Infatti non faccio questo (come, ripeto,
è stato già fatto nel corso di questa tragedia) per aver perduto il senso della legge:
ma per averlo ritrovato e... GIUDICATO.
Ecco, il bonzo è pronto.
(Comincia a compiere gli atti necessari a impiccarsi al soffitto.)
Sole, fermati su Gabaon, e tu, luna, sulla valle di Aialon! (Sale sulla sedia e infila il capo nel cappio.)
Allegri!
Dentro una delle tante case di questo quartiere
— o per lutto, o nevrosi, o noia del pomeriggio festivo—c'è stato finalmente un uomo
che ha fatto buon uso della morte.